Swisspeaks vol. 8.2

Dispiaciuto per Beto devo tornare a pensare al mio destino e per me il futuro prossimo riserva un’abbondante dose di fango e pioggia e pure l’amarezza di non vedere niente attorno, nemmeno quando attraversiamo delle affilate creste di montagna che lascerebbero immaginare anche di notte dei paesaggi fiabeschi. Invece c’è solo melma e acqua, tanto che pur di farmela passare mi accodo ad una strana coppia che sta correndo la 100K (pertanto nelle retrovie, per cui tengo il loro passo) composta da un orientale (giapponese?) che emette dei rumori strani e da una tedesca, che per mia fortuna sono obbligati a parlare in inglese tra loro. Dalle frasi che scambiano capisco subito che il tizio deve essere un tordo mica da ridere, mentre lei sembra mettere assieme almeno due tre ragionamenti di senso compiuto. Ovviamente mi faccio anche un trip secondo il quale lui stia tentando l’approccio ma quando la ragazza si gira e la inquadro bene in viso non riesco a non pensare che sia tra le cinque donne più brutte che io abbia visto. Lei parla anche di un “husband” che la aspetta al traguardo e io faccio mentalmente a lui i complimenti per tanto coraggio. Per fortuna in mezzo a pensieri così politicamente scorretti arriviamo al secondo ristoro, lo “Chalet de Blansex” che di chalet non ha niente almeno per noi, che siamo relegati sotto un tendone. Smette un attimo di piovere per cui dopo essermi mangiato un paio di raclette riesco a sedermi attorno ad un bel falò che hanno acceso all’aperto e mi asciugo i vestiti. Passa in quel momento anche Roberto da Treviso ma si ferma un attimo e riparte così per l’ennesima volta lascio il ristoro da solo, consapevole che per me si avvicina l’ora della solita botta di sonno ingestibile. Per fortuna in questo tratto non ci sono sentieri ripidi ed anzi dopo uno scollinamento mi ritrovo su una bella poderale. E’ l’alba e non piove più, la pendenza è regolare ed inizio a corricchiare e……mi addormento. Corro addormentato e nel subconscio sono pure felice anche se nel fondo della mente sento di aver scordato qualcosa. Ma la strada è bella, e io vado, trottando nel dormiveglia e mi piacerebbe vedermi da fuori in quel mentre. Poi d’un tratto, ormai in fondovalle in corrispondenza di un ponte sbarro gli occhi e inchiodo sui due piedi. Mi è venuto in mente cosa non andava: le balise !!!! Da quando corro in discesa da assopito non ho più controllato i nastri ed ora non ne vedo nelle vicinanze. Mi viene da piangere e dandomi a voce alta del coglione inizio a tornare sui miei passi in salita, sperando di trovarne presto una. Passerà invece mezz’ora durante la quale incontro anche due americani su un furgone talmente dispiaciuti per me da offrirmi un passaggio indietro ma so che rischio la squalifica pertanto ringrazio e rifiuto. Finalmente in corrispondenza di un bivio ritrovo le bandierine (che erano segnate perfettamente peraltro) e ritorno sul giusto sentiero che in breve riporta su un altro sterrato in salita. Percorro la strada e nonostante la disavventura di poco prima devo essere veramente lesso, perché ad un certo punto dopo un tornante vedo delle balise sulla sinistra e prendo un sentiero in discesa. Per fortuna dopo poco incrocio un tizio che mi avverte che sto andando in senso contrario. Ribatto mostrandogli le bandierine che le sto seguendo ma lui mi dice di essere abbastanza sicuro che si vada in senso opposto, aggiungendo anche che è il tracciatore di quella parte di percorso. Capisco subito dove è l’errore: ho saltato una deviazione (scurtolo) sulla strada principale e quando ho trovato il punto in cui si immetteva nuovamente sulla sterrata l’ho preso nel verso sbagliato. Per fortuna stavolta la mia sbadataggine mi costa poco, così in breve arrivo al ristoro posto in un luogo incantevole dove un laghetto è contornato da chalet bellissimi: Taney.

Taney
La splendida Taney

Al ristoro sono tutti gentilissimi ed il cibo buono. Il fatto che non piova più solleva ulteriormente il morale per cui approfitto dell’atmosfera bucolica per prendere uno sdraio rotto messo in disparte e rilassarmi un attimo. Dopo pochi istanti la tela sotto il sedere si strappa e mi ritrovo col culo per terra e la schiena appoggiata allo sdraio. Non muto nemmeno espressione e sotto lo sguardo divertito dei volontari mi godo una decina di minuti di totale relax. Quando riparto vengo avvicinato da due concorrenti della lunga che incredibilmente parlano inglese (sono belgi) e altrettanto incredibilmente per educazione discutono in tale lingua per permettermi di partecipare ai dialoghi. E’ la prima volta da quando ho lasciato Fabiano che posso camminare e scambiare quattro chiacchiere con qualcuno e in poco tempo iniziamo a scherzare e a confrontarci sulle varie parti del percorso che ci hanno colpito maggiormente. Ad un certo punto la strada torna a salire ed uno dei due si stacca, mentre io e l’altro, Adrien, continuiamo assieme come vecchi amici. E’ un appassionato di scialpinismo e arrampicata perciò possiamo svariare negli argomenti, tanto che arriviamo al ristoro successivo quasi senza essercene accorti. Questo sarà l’ultimo ed il fatto di essere ormai prossimi al Lago di Ginevra fa si che i bravissimi volontari offrano del pesce accompagnato con riso e verdurine. E’ favoloso e ne prendo due abbondanti porzioni.

Pasto pesce
Che spettacolo !!

Al momento di partire mi viene un po’ di malinconia perché so che sta per terminare questa avventura e che a breve non ragionerò più pensando a distanze, dislivelli e basi vita, ma si tornerà alla consuetudine di tutti i giorni. Copro l’ultima salita della gara quasi di slancio e al momento di iniziare la planata finale verso il traguardo Adrien, che ha grossi problemi alle ginocchia in discesa, mi dice di non aspettarlo e che ci vedremo in fondo per cui inizio a trottare verso l’epilogo della mia Swisspeaks che dista ormai solo un pugno di chilometri, più a valle, con i concorrenti della 42k partita qualche ora prima che iniziano a superarmi. Corricchio quanto posso, arrivando addirittura a superare uno della 360K che mi guarda malissimo e giungo infine sul lungolago dove in fondo al pontile si trova il traguardo. Mi sento chiamare e sono Sandrine e Philippe che già arrivati si stanno sbracciando ad applaudire chi arriva e nell’indifferenza del resto della Svizzera varco il traguardo non venendo nemmeno menzionato dallo speaker, intento a elogiare il 50mo arrivato della gara Marathon. Francamente mi frega poco, penso solo a levarmi le scarpe (è tornato il male alla caviglia probabilmente legato al fatto che nell’ultima tappa non ho preso l’OKI che mi concedevo) e a prendere una birra, poi, rigorosamente all’interno della zona d’arrivo mi siedo su masso in riva al Lago e mi concedo due minuti di totale compiacimento, sorseggiando con voluttà la mia meritatissima bionda.

Arrivo
Finalmente un po’ di relax !!

Poi, dopo aver scritto qualcosa a casa e sul gruppo tifosi mi inizio a rimpinzare di crepe e birra, che finchè resto all’interno della zona arrivo sono gratis, per poi costare 8F appena varcata la transenna. Aspettando Adrien perdo il conto di quante ne sorbisco, e quando arriva lui ricomincio da capo. Mi fa una foto sotto al traguardo e spendiamo un po’ di tempo assieme anche se non parliamo molto, quasi svuotati alla fine di questa lunga avventura.

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Espressione più stupida del solito

Dopo un po’ saluto e vado a recuperare l’auto, e prima di trovare il mio B&B ho anche la forza di andare a comperare birra e schifezze in un supermercato. Preso possesso della mia camera (minuscola e a dir poco….minimale) vado nel bagno in corridoio a fare la doccia e mi devo pure vestire per uscire, in quanto il buono pasto che ci hanno consegnato è spendibile in uno degli stand sul Lungolago nei pressi dell’arrivo. Sono però vicino e a piedi vado a prendermi una pizza da asporto che mi porto in stanza e che mangio in beata solitudine. Mi metto in pari coi messaggi e mangio un po’ di porcherie, poi inizio ad essere stanco e per tutta la notte mi addormento e mi risveglio con una certa ciclicità. La mattina dopo colazione faccio due passi attendendo la premiazione, anche se non posso infilarmi la scarpa destra in quanto la caviglia è ormai andata a farsi benedire.

Caviglione
Il caviglione

Vorrei partire subito ma il miraggio del giacchino invernale che da sempre viene consegnato ai finisher mi trattiene. Mi reco al molo dove trovo Adrien e dove vedo anche gli altri finisher, e ci si guarda tutti con ampi sorrisi, come dei reduci che l’abbiano in qualche modo scampata.

Sandrine
Alla premiazione sembra che tutto sia stato facile….

Per fortuna la cerimonia di premiazione è più corta rispetto al TOR e dopo la foto di rito sul palco con tutti gli altri, mi fiondo all’auto e inizio il lungo viaggio di ritorno verso l’Italia e verso casa, con un pisolino in Autogrill dopo Aosta, giusto per l’ultima volta come ricordo della settimana trascorsa. L’avventura è finita, avrò modo di pensare a fondo ai giorni passati, per ora sono solo contento di essere riuscito a portare a termine questa gara. Adesso sono uno Swisspeaker, che è tutto quello che volevo al momento della partenza.

SP 360 vol.8.1

E’ sabato sera e sono le 22. Mi trovo nella minuscola stanza di una topaia, vendutami come appartenente a un B&B. Mi importa poco perché anche se il bagno è in corridoio, lo spazio è angusto, la pulizia è relativa e non c’è né televisione né wifi sono soddisfatto perché finalmente potrò dormire in un letto e non in una branda attorniato da russatori. Ho utilizzato il buono pasto della gara per una pizza da asporto, integrata da una miriade di patatine e noccioline (al rafano) che assieme a della birra ho comperato in un market. Sto finendo la terza birra e dopo aver messaggiato ai tanti amici che mi hanno scritto, sento le palpebre che si chiudono e non posso che lasciarmi vincere dalla stanchezza ricordando quanto successo nelle ultime 24 ore.

La base vita di Morgins è in una grande palestra, con belle docce, una ampia zona mensa piena di tavoli ed una zona riposo separata e più tranquilla rispetto a quella della Base precedente. C’è un sacco di gente (chiaro che per me vedere più di 50 persone assieme è quasi uno choc) perché oltre quelli della 360k ora in gara ci sono quelli della 170k e si sono aggiunti quelli della 100k. Ormai però i compagni di gara li riconosco in viso perciò non ho dubbi su quali siano. Devo decidere quanto fermarmi e cosa fare perciò sorseggiando una birra scelgo la seguente strategia: dopo la doccia provo a dormire se ce la faccio,  quando mi sveglio vedo che ora è  e con calma parto. Dopo essermi lavato ed uno spuntino, entro titubante in sala riposo (che qui è al buio e dove regna un religioso silenzio), mi infilo nel sacco a pelo su una brandina e…..incredibilmente mi addormento. Quando mi desto dopo un’ora e un quarto sono euforico, tanto da mangiare in abbondanza nella sala mensa e ritentare la sorte in sala riposo e …..taac, mi riappisolo per un’altra mezz’ora abbondante. Al nuovo risveglio, di umore notevolmente sollevato mi preparo ad uscire con tutta calma, non prima di aver consumato un ennesimo ….spuntino (pasta al ragù). A tavola conosco anche un italiano che fa assistenza alla moglie sulla 170K; fa il rifugista in Val D’Aosta e giocoforza ci troviamo a parlare di Tor e di ultra. Poi compare la consorte pronta ad uscire dopo aver fatto la doccia e riposato, e resto allibito perché è una donna bellissima che non avrei mai pensato di trovare in una gara così tosta. Ovviamente ho dei preconcetti abbastanza datati perché per fortuna il mondo della corsa in montagna è ormai fortunatamente popolato di belle pulzelle. Sono nel frattempo arrivate  le 22.30 ed ho deciso che me la prenderò con calma, godendo di ogni piccola gioia ai ristori e in caso di sonno mi sdraierò sotto le stelle a riposare, tanto il percorso non prevede mai di salire sopra i 1900 m di altitudine. Al momento di partire noto un tizio spagnolo che precedentemente faceva coppia con un connazionale. Mi guarda e gli chiedo se sta uscendo ed al suo cenno positivo si aggancia a me ci accingiamo all’ultima tappa. Tento un dialogo ma oltre alla barriera linguistica mi accorgo che c’è dell’altro: è uno stordito incredibile. Chiama al cellulare un suo amico e gli dice che è assieme ad un italiano, ed immagino che l’altro gli dica di marcarmi stretto perché non mi molla a nessun costo, non scostandosi nemmeno quando mi fermo a pisciare. Inizia anche a piovere ma non mi preoccupo perché il mio team di meteorologi (Pito ed il Bei che da casa per tutta settimana mi hanno scritto comunicandomi le previsioni di ogni settore che attraversavo, peraltro non sbagliando mai) prevedono un po’ di pioggia all’inizio che presto si esaurirà. Purtroppo la perturbazione sembra invece intensificarsi e dalla pioggerella iniziale ci troviamo sotto un bello scroscio che trasforma i sentieri in fango.

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Il pessimo fondo dell’ultimo giorno di gara

Lo stordito spagnolo tiene legata in vita la giacca impermeabile e con addosso un piumino si trascina 15 litri di acqua assorbiti dal tessuto. Ad ogni bivio (segnato peraltro impeccabilmente) sbaglia strada, e solo dopo averlo richiamato torna sui suoi passi. Mi chiede tre volte quale sia la cima più alta della tappa e glielo comunico con tutta la calma del mondo, mostrandogli anche l’altimetria di giornata che tengo in tasca. Ad un certo punto mi chiede se so quale sia il numero dell’organizzazione e mostrandogli che c’è l’ha stampato sul pettorale mi premuro di sapere se ha dei problemi. Mi risponde che vorrebbe chiedere loro quale sia la cima più alta della tappa al che ritorno il solito irascibile di sempre e lo mando a fare in culo. Paradossalmente questo sembra convincerlo di quanto gli ho precedentemente comunicato in base all’altitudine della cima. Arrivati in prossimità del primo ristoro c’è una vacca gigantesca in mezzo al sentiero e non credo di averne mai vista una più grande. Mi fermo per una foto assieme, ma a causa della pioggia non metto mai bene a fuoco. Noto con sorpresa che lo sguardo della vacca è molto più presente di quello dello spagnolo e penso che se potessi scegliere tra i due farei il resto della notte col ruminante, poi però mi sento in colpa e assieme al mio iberico stralunato arrivo ad un bello chalet sede del primo ristoro. Il posto è confortevole e caldo e sono tutti gentilissimi, addirittura troviamo una volontaria che parlando spagnolo si fa raccontare da Beto (il nome dello svampito, Alberto) che faceva la gara in coppia con un compagno e che l’altro, che si è ritirato, era il capo (chi l’avrebbe detto):  lui adesso è rimasto solo. Mi offrono una squisita zuppa di cipolle e sono quasi tentato di partire quando un volontario mi dice che al ristoro successivo non ci saranno brande (non finirò mai di ringraziarlo) per cui un po’ malvolentieri per essere partito da poco mi fermo sul soppalco messo a disposizione per il riposo, e chiedo di chiamarmi (chiamarci perché ovviamente Ruben non mi molla) dopo un’ora. Mi faccio un ottimo riposino e dopo 50 minuti mi sveglio, e pur potendo svignarmela chiamo Ruben e mi preparo a partire. Arrivati sulla porta vediamo che la situazione meteo è addirittura peggiorata e ora una doccia scrosciante ci attende lungo il sentiero. Lo spagnolo ha un’epifania e decide di mettere via il piumino e mettersi la giacca impermeabile, impiegando per l’operazione 15 minuti. Sto emettendo vapore dalle narici mentre lo guardo muoversi alla moviola, ma mi ripeto come un karma che tutto questo è solo una prova che mi sta mandando il dio del trail per verificare se davvero io meriti di arrivare in fondo, pertanto attendo pazientemente e quando il mio compagno di nottata ricompare con la giacca impermeabile ripartiamo sotto una pioggia battente. Ci attende la salita più dura di giornata e pur essendo ridicola rispetto a quelle dei giorni precedenti, stanchezza, rilassatezza e un fiume di fango sul sentiero complicano l’andatura e rallentano il passo. Dopo una mezzoretta abbondante passata in silenzio Alberto tira una parolaccia a voce stentorea e mi fermo a fissarlo. Con lo sguardo della mucca di poco prima mi fissa e mi dice “Bastones “!! Gli chiedo se li ha dimenticati al ristoro e mestamente fa cenno di si col capo. Il dio del trail mi compare d’innanzi e mi dice “quando è troppo è troppo” per cui lo saluto e vederlo riprendere la strada del ristoro sarà l’ultima immagine che ho di Agullo’ Ronco Alberto Ruben, che scoprirò poi essersi ritirato al km 350,2 cioè a 9,8 km dall’arrivo………..

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Sono le 17 del pomeriggio di venerdì e sono appena arrivato alla Base Vita di Morgins. Gli stati d’animo variano dalla stanchezza per la tappa sfiancante fino alla soddisfazione per essere qui, oltre al grande sollievo per non dover affrontare nuovamente una notte come quella passata. Ci sono momenti in cui senza voler sembrare supponenti si è orgogliosi di se stessi, e questo è uno di quelli, perché sono stato molto in difficoltà ma non mi sono scomposto, almeno non troppo, e questo ha fatto la differenza. Ma andiamo con ordine e torniamo a ieri

A Finhaut la base vita è divisa in tre zone diverse, con le docce messe in un container in un piazzale. A dire il vero mi importa poco, perché come nelle altre Basi le ho trovate libere e calde perciò vanno benissimo. Quello che mi scoccia è che manca un locale adibito a zona pasti, che vengono perciò serviti in un tendone aperto e tramite buono pasto consegnatoci all’arrivo. Significa che si può mangiare una volta sola e questo è scomodo perché mi costringe a ingozzarmi come un cammello. Inoltre l’assenza di un locale mensa al chiuso fa in modo che tutti utilizzino la palestra dotata di materassini, oltre che per dormire anche per prepararsi alla tappa successiva pertanto la confusione all’interno non è l’ideale per riposare, figuriamoci per uno con i miei problemi di sonno che nonostante tappi, maschera e sacco a pelo non chiude occhio. Mi viene un nervoso pazzesco perché so già che appena caleranno le tenebre sarò uno zombie, ma non c’è niente da fare, pur sforzandomi di stare fermo immobile sdraiato non c’è verso di addormentarmi, con la beffa di essere attorniato di gente beatamente tra le braccia di morfeo, incuranti di confusione, porte che sbattono e quant’altro. Beati loro.

Base vita
Quanta invidia….

Alle 20 sono pronto e come sempre in perfetta solitudine esco dalla base vita e mi inoltro nel bosco soprastante. E’ sempre il momento più difficile della giornata per me, in fin dei conti lascio “la civiltà” per entrare in una dimensione più avventurosa (per carità niente di pericoloso o pauroso, non ho mai avuto il benchè minimo problema legato al fatto di stare di notte da solo nel bosco o in quota), e questo mi provoca un minimo di ansia. Per fortuna la consueta fatica e l’accingermi a qualcosa che ormai è diventato ordinario in breve cancella ogni remora e cosi’ mi ritrovo nella mia solita predisposizione d’animo propositiva e ottimistica. Per passare un po’ il tempo chiamo Fabiano che non ho sentito dal momento del ritiro (mi ha però sempre messaggiato incoraggiandomi) e lo trovo a casa intento a nascondersi dal pigiama party organizzato per il compleanno di una figlia. Chiacchieriamo un po’ e poi lo saluto, giusto in tempo per ricevere la telefonata del Perbe che mi chiede come vada. Altra bella botta di fiducia (sempre gradita) e poi resto solo affrontando la salita più incredibile che mi sia mai toccato fare su sentiero. Ho controllato poi sul Garmin ma in un singolo chilometro il D+ è di 429 m, e sono a bocca aperta per il fatto che su questo pratone verticale solcato da un sentiero che spara su dritto per dritto, non ci sia lo straccio di una persona messa almeno a contare i morti, ma lo stile svizzero è questo ed ormai mi ci sto abituando. Iniziano a passarmi i primi concorrenti della distanza 170k (in pratica fanno gli ultimi 170 km del nostro percorso) e logicamente la loro velocità è doppia. A dire il vero dopo il primo scollinamento un tratto molto tecnico con corde e catene mi diverte parecchio e mi tiene bello vispo, poi inizia una fase di salita regolare e noiosa, sono le 3 di notte ed io complice la carenza di riposo inizio a vaneggiare, perdendo il senso di dove mi trovi. Ho ricordi vaghi, tipo quello di aver attraversato una contrada dove dei maiali erano completamente immersi nel fango e ricordo pure di essermi fermato su una roccia grande per non sdraiarmi sull’erba umida, e di averla scelta (la roccia) per il fatto che ci saremmo stati tutti e 4 (ero convinto in quel momento che fossimo in 4 ma ero ovviamente da solo), ma poi ho memoria solo di un enorme sforzo di volontà necessario a mettere un piede davanti all’altro, tanto che non ricordo niente della seconda salita se non di essermi come ridestato una volta giunto sul colle grazie al passaggio di altri atleti della 170k. So che il ristoro non è lontano e che per me è fondamentale arrivarci in fretta, così da potere finalmente dormire, pertanto mi impongo di seguire il primo concorrente che mi passi e così faccio, e in tale modo arrivo a vedere un faro lontano (non nella mia immaginazione, c’era davvero) che è l’Auberge della Salanfe, un edificio sede di un’altra diga e del punto sosta. Il faro mi guida come un novello Re Mago, ma una volta giunto nel piazzale del ristoro non vedo un cartello che indica di entrare nella rimessa automezzi ed aspettandomi chissà cosa e non trovando anima viva continuo nel sentiero rientrando nel buio della notte. Per fortuna uno sprazzo di lucidità mi impone di girarmi e così vedo degli atleti in lontananza arrivare al piazzale per poi scomparire. Capisco di aver sbagliato e tornato sui miei passi vedo un atleta uscire da un garage che mi indica il ristoro. Spalanco la saracinesca e trovo una scena surreale: c’è una specie di soppalco sul quale ci sono dei volontari che offrono il cibo, di fronte al quale alcuni atleti della 170k seduti su una panca stanno consumando delle bevande calde. Dietro a questi c’è una zona con una decina di brande completamente occupate, e tra queste, altri zombie della 360k sdraiati sul cemento che dormono. Il resto del pavimento è allagato perciò il sottoscritto, una ragazza bionda (Sandrine) e un tipo allampanato con lo sguardo vuoto non abbiamo nemmeno il posto per sederci. So che per me è fondamentale sdraiarmi perciò alla vista di un tavolo da sagra ripiegato appoggiato al muro, lo prendo e lo butto sul pavimento bagnato creando un’isola sulla quale tenendo il busto sul tavolo e le gambe sul bagnato riusciamo a sdraiarci tutti e tre. Sandrine ha lunghe trecce bionde ed un sonno agitato, perché due secondi dopo essersi sdraiata si addormenta ma girando la testa mi assesta delle vigorose frustate. Non ci faccio però troppo caso perché pure io mi addormento in un attimo e per fortuna dopo 10 minuti con la coda dell’occhio vedo una branda che si è liberata e ci zompo sopra in un baleno. Sono salvo, mi riaddormento e dopo quello che mi sembra una vita (ma sono in effetti 50 minuti) riapro gli occhi e vedo un paio di runner della 360 che sono in piedi e mi guardano con la bava alla bocca come se al posto della brandina ci fosse la Canalis in deshabillé. Potrei catafottermene e girarmi e riaddormentarmi, ne avrei ogni buon diritto, ma quei poveri disgraziati sono nelle mie stesse condizioni di poco fa pertanto mi alzo e lascio il posto e dopo essermi riempito la pancia e ringraziato i volontari (veramente stoici per riuscire a gestirci in quelle condizioni) esco fuori e, indovinate, sono solo. Manca poco all’alba e fa un freddo cane ma il sentiero è all’inizio molto dolce e poi quando inizia la luce è di nuovo incredibile. Sembra impossibile ma in un labirinto di rocce e cavità all’apparenza inaccessibili, c’è un sentiero che porta al Col de Susanfe, dal quale l’alba sul lago della diga è qualcosa di incredibile.

Susanfe alba
L’alba sul lago de la Salanfe significa la fine di una lunga notte

Succede di nuovo, si passa da momenti di grande difficoltà a momenti di assoluta meraviglia, in un rincorrersi di emozioni che chiaramente sono accentuate dalla stanchezza. Resto qualche istante in silenziosa contemplazione quando un “trenino” composto da Sandrine, dal magro addormentato e dal suonatore di ukulele mi raggiungono, pertanto mi piazzo dietro al sedere della bionda e godendo ogni tanto dell’accompagnamento musicale di Philippe (si chiama così il suonatore) a metà mattina giungiamo nel bellissimo paesetto di Barme dove è posizionato un ristoro. Il locale che ci ospita ha montato un paio di tendoni sul prato uno dei quali contiene i tavoli e l’altro alcune brande. Il resto del gruppo mangia in fretta e si fionda a dormire mentre io dopo aver ingurgitato almeno 6 crepe al formaggio e prosciutto, complice il sole e la bella luce decido di camminare un altro po’ prima di fermarmi. Se il tempo è buono e non c’è freddo infatti non ho problemi a ricavarmi un giaciglio ed infatti dopo un paio d’ore mi sdraio su un bel prato sotto ad un albero e dormo pacificamente mezz’oretta. Riparto di lena e la buona sorte fa in modo che tanta premura sia ben ripagata perché arrivo al ristoro di Chauxpalin pochi secondi prima che si scateni un imprevisto e improvviso temporale. I magnifici ragazzi che gestiscono il ristoro ci fanno accomodare all’interno di una specie di stalla (pulita) ed iniziano a viziarci preparandoci toast fontina e speck accompagnati da birra fresca. Arriva anche Philippe così per mezz’ora mangio, bevo e ascolto musica. Non mi faccio però attardare dagli agi e appena il cielo si pulisce, riparto per l’ultima salitina di giornata e dopo interminabile discesa alle 17 arrivo a Morgins, ultima base vita. In questa tratta per me durissima ho però superato tante persone, segno che la fatica inizia a farsi sentire su tutti. Ora devo decidere cosa fare perché finalmente mi sono creato il cuscinetto di margine sul cancello orario che desideravo, e posso scegliere se partire con i soliti tempi o prendermela con comodo e arrivare al traguardo qualche ora più tardi ma godendomi l’ultima tappa. Quale sarà la mia scelta? lo deciderò dopo una bella doccia.

SP 360 vol.6

Sono le 18 di giovedì sera e mi trovo in quella che a tutti gli effetti sembra essere la peggior base vita trovata finora, Finhaut, dove so già che mi sarà impossibile dormire in quello stanzone rumoroso adibito a dormitorio, e dove so altrettanto bene che per l’ennesima volta sarò da solo stanotte, ma il pensiero mi disturba e mi solletica allo stesso tempo. Ero venuto alla Swiss per vivere un’avventura e a tutti gli effetti sto trovando pane per i miei denti. Ma andiamo per ordine partendo dal giorno prima

Giunto alla Gran Dixence rimango a bocca aperta quando una volontaria mi assegna una stanza (doppia) al primo piano dell’hotel (i primi due piani sono in dotazione alla gara) per un massimo di tre ore, pertanto mi fiondo immediatamente in doccia e poi nella camera dove un altro runner sta lasciando la postazione. Finalmente in pace e distrutto dalla stanchezza mi addormento come un sasso, svegliandomi solo un’ora e mezza dopo, trovando al mio fianco nel letto un altro tizio addormentato. Mi sento benissimo e recuperate le mie cose in stanza, scendo nella sala comune dove comodamente inizio a mangiare e a prepararmi per quella che sarà la tappa più lunga della gara. Lo faccio con calma perché ho scelto di prendermi un po’ di respiro, così accendo il cellulare e tra i vari messaggi di amici e conoscenti trovo purtroppo anche quello di Fabiano. Mi comunica che dopo aver iniziato la salita dalla Base Vita di Griezment, investito dalla burrasca non se l’è sentita di continuare pertanto si è ritirato. Mi spiace molto e glielo scrivo, magari senza i problemi allo stomaco sarebbe riuscito a passare la tappa con me ed il temporale avrebbe avuto altro impatto, ma con i se ed i ma non si fanno gli ultratrail, pertanto ritorno alle mie cose e con tutta la calma del modo mi riempio di cibo e disfo e rifaccio lo zaino per bene, sincerandomi di avere con me tutto quello che possa servire per questa linghissima tranche di gara che mi riporterà in una nuova base vita dopo più di 24 ore, 70 km e 5000 m di D+. Alle 14 infine, sotto un tiepido sole esco dall’hotel con una predisposizione d’animo eccellente e riprendo la strada che con una salita di 900 m mi porta in un posto favoloso, il Gran Desert. Questo ghiacciaio a 3000 m è su un altipiano pieno di laghetti glaciali, alle cui spalle troneggia il grosso del deposito nevoso.

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Il Gran Desert dal Col de Prafleuri

Resto a bocca aperta camminando per un paio di ore fuori dallo spazio e dal tempo, e a migliorare  la cosa, se ce ne fosse bisogno, trovo pure un ristoro messo sotto un tendone in mezzo al nulla dove dei fantastici volontari ci fanno trovare il solito buion e dei salumi e formaggi pazzeschi. Mangio come un bue riempiendomi la pancia di cibo e gli occhi di meraviglia, e quando riparto penso che passeranno anni prima che io possa vedere un posto migliore. Ovviamente mi sbaglio perché a metà della prima discesa trovo il Lac de Louviè alle cui spalle incombe il Gran Combin che quasi si specchia, e sulle cui rive un branco di camosci sta pascolando.

Louvie
Il Lac de Louvie in tutto il suo incanto

E’ sera, una pace assoluta regna su tutto e mi pare impossibile di essere così fortunato. Arrivato ad ora di cena al ristoro di Le Plampro i volontari offrono raclette e dolci buonissimi, così dopo aver fatto il pieno provo a vedere se nel piccolo tendone a fianco alla zona pasto riesco a schiacciare un pisolino. Purtroppo l’umidità che sale dall’erba e la confusione fuori (giustamente i volontari hanno organizzato una festicciola e se la ridono di gusto) mi impediscono di prendere sonno, per cui esco e inizio la salita di 1300 metri di D+ che mi aspetta. Incredibilmente mi si accoda un ragazzo svizzero che ho già visto nei giorni precedenti e quando gli chiedo se vuole strada mi dice in inglese maccheronico che gli va meglio se faccio il ritmo io, così per la prima volta mi trovo di notte ad avere un po’ di compagnia. A dire il vero non parliamo affatto, ma almeno sento i passi dietro e già questa è una novità. Dopo un’oretta nel bosco sbuchiamo in una zona turistica e tra le baite chiuse vediamo una luce in una di queste, con un cartello fuori che dice che i runners della SP sono i benvenuti per un ristoro abusivo offerto. Ci fiondiamo dentro e faccio un po’ di merenda mentre il mio nuovo socio intavola una accalorata discussione coi gestori. Gli faccio segno che vado avanti e che mi raggiunga e mi dice ok col pollice alto; non lo vedrò mai più, anzi, lo rivedrò all’arrivo dove mi dirà che da quel ristoro non è più ripartito e si è ritirato. Mi separano una decina di chilometri dal ristoro ufficiale, e solo nella notte inizio la consueta lotta con le allucinazioni del sonno che mi portano a camminare semiaddormentato. Quando mi accorgo che sto perdendo del tutto la lucidità trovo il solito mugo ad accogliermi, e con 15 minuti infilato tra i rami riprendo un minimo di vitalità. E’ inutile preoccuparsi che qualcuno che sopraggiunga mi svegli credendomi in difficoltà, nessuno passa in quel lasso di tempo. Arrivato al ristoro mi sfondo di brodo e formaggio (in effetti qui non c’è molto altro) e su uno sdraio mi concedo altri trenta minuti di pausa, per ripartire poi per l’infinita discesa verso Orsiere (1700 D-) che coi suoi 900 m è il punto più basso della gara. Sono le 4 di mattina quando arrivo e mi siedo 10 minuti su una panchina in paese come faranno chissà quanti turisti qualche ora dopo, ma sono certo che nessuno di loro si godrà la mia attuale sensazione di benessere. Poi colmo gli ultimi 4 chilometri che mi separano dal successivo ristoro, dove appena giunto chiedo se si possa riposare. Un gentilissimo signore mi porta in una stanza con brande e coperte e mi chiede dopo quanto mi deve chiamare: rispondo 2 ore. Appena poggio la testa mi addormento e…..ovviamente dopo 50 minuti sono sveglio. Non capisco questa maledizione, non trovo il modo di dormire quando devo, e di notte, quando non dovrei, allora crollo. Mi alzo biascicando un’ espressione veneta e vado in sala ristoro dove una bella colazione con pasta scotta, dressing tipo insalata e salumi vari mi dà la carica;  alle 7 circa mi accingo a quella che sarà la salita clou della giornata, i 1800 D+ che mi separano dalla Fenetre de Arpette.

colazione

Colazione svizzera…..

Sono incredibilmente sempre di buon umore di giorno, nonostante la solitudine e la stanchezza e nonostante il problema alla caviglia. L’inizio è dolce e regolare, con il passaggio in località finalmente animate da turismo come Champex Lac, poi la salita prende dei contorni più “ruvidi” e dopo aver sbagliato percorso due volte decido di concentrarmi e inizio una erta che man mano che si avvicina alla forcella richiede quasi l’uso delle mani. Gli escursionisti sono parecchi qui, e alcuni sono in evidente difficoltà. La perversa soddisfazione di vedere qualcuno tribolare più di me mi regala insperate energie, pertanto in meno tempo del previsto mi trovo sulla stretta sella sommitale, per l’ennesima volta incantato dalla vista. Da una parte la vallata da cui arrivo, con il Gran Combine sullo sfondo, di fronte la vallata di Trient, col Monte Bianco sullo sfondo. Foto di rito, video da cazzaro e poi via verso il ristoro con una lunga discesa che a tutti gli effetti si mostra ben più lunga e ostica del previsto.

arpette
Sulla Fenetre de Arpette

Chiaramente  le ore di attività iniziano a pesare ma per fortuna arrivato a Trient mi faccio due risate al ristoro con un ragazzo belga che ci prova con le volontarie più giovani (potenza dell’ormone giovanile) però riguardo la corsa è stralunato perchè mi chiede quante tappe manchino all’arrivo. Non so se mi stia coglionando, non credo ci sia qualcuno che per quanto prenda la gara con filosofia non sappia quante tappe abbia, comunque è simpatico e parla qualche parola di italiano perché ha fatto l’Erasmus a Firenze, perciò mi godo la compagnia e una buona birra e una raclette mi rifondono le energie necessarie per l’ultima fatica di giornata, una scorbutica discesa fino al fondovalle per guadare un torrente e la successiva scalinata assassina fino in paese. Sono a Finhaut, torno in Base Vita dopo 27 ore e le mie percentuali di diventare finisher dopo la tappa odierna sono sensibilmente aumentate. Temevo questa tappa ed ho fatto ogni sforzo per arrivarci con margine, mi sono accorto però che sto recuperando molte persone pertanto tutto sommato mi ritengo soddisfatto. Sarà sufficiente però ?

SP 360 vol.5

Sono le 9.45 di mercoledì mattina e sono arrivato alla Base di Gran Dixence, e quella che nelle previsioni sarebbe dovuta essere una tappa interlocutoria si è dimostrata invece tosta al pari di quelle che l’hanno preceduta. È stupefacente come cambino le cose passando da una mappa alla realtà, e come delle nude cifre che raccontano i km da percorrere ed il dislivello da salire e scendere non diano la percezione di quello che ci verrà chiesto in termini di fatica e di forza di volontà. Quella è inaspettata, come ho visto anche nella scorsa tratta.

La prima salita di giornata porta ad uno dei punti più alti della gara, la Cabanne du Becs de Bosson a 3000 m proprio sopra l’abitato, a cui si accede dapprima tramite un bosco e poi da una serie di piste da sci che se da un lato lasciano poco spazio all’immaginazione dall’altro mi regalano un fondo agevole su cui camminare, che per la mia caviglia è un buon aiuto. Appena uscito dalla Base Vita inizia a piovere ma per un paio d’ore l’intensità non mi da’ fastidio. Man mano che ci si alza però, un vento sempre più sferzante mi costringe ad avanzare chinato, con gli ultimi metri prima della Cabanne (che a causa delle nubi basse e della nebbia non ho nemmeno visto) in cui si sale aiutandosi con le mani, e dove non riesco quasi a capire dove passare.

Susanfe 2
Le luci di chi segue sul sentiero verso la Cabanne

Paradossalmente in tale marasma atmosferico un colpo di sonno maledetto mi prende, chiedendomi un grande sforzo di volontà per non cedere alla tentazione (che sarebbe stata sciagurata) di farmi un pisolino in mezzo alla bufera, con l’esito che appena metto piede sulla sommità del pianoro finale, al posto del Rifugio trovo ad ospitarmi un piccolo tendone sotto cui è allestito un micro ristoro in cui vedo un’ unica branda quasi libera (c’era un tizio seduto) dove per 15 minuti cado semiaddormentato con la testa sotto le coperte ed il resto fuori, dando probabilmente l’idea ai volontari di essere in presenza di un emerito imbecille. Una volta ripresomi e ritrovata l’educazione, dopo aver salutato i giovanissimi gestori del ristoro chiedo cosa ci sia da mangiare e all’entusiastica risposta di una ragazza “rognones”, accetto di buon grado un bel piatto di rognoni ai ferri (e faccio pure il bis) accompagnati da birra e l’immancabile buion. Purtroppo, la situazione atmosferica al di fuori del tendone rimane critica ma non voglio attendere oltre. Ovviamente da solo (ci sono dubbi?) esco e dopo essere stato accompagnato per un cinquantina di metri dalla gentilissima ragazzina (in maniche corte in mezzo alla bufera), mi trovo dopo tre balise in totale assenza di riferimenti. Le nuvole basse non permettono di vedere a un palmo dal naso, la pioggia sferzante ed il vento costringono a tenere gli occhi bassi e la discesa su una pietraia inganna sulla via da tenere. Penso a questo punto di tornare nel tendone ma girandomi non vedo nemmeno da dove sono arrivato, rischio perciò di sbagliarlo e vagare sulla piatta cima in cerca del ristoro. Faccio mente locale e mi concentro sulle tracce sul terreno, come le guide indiane nei film di John Wayne, così un po’ per istinto ed tanto per culo inizio a trovare indizi sulla bontà della via seguita, fino a raggiungere delle catene metalliche di discesa che mi fanno esultare. Dopo una ventina di minuti mi trovo sotto il livello delle nuvole e si iniziano a distinguere le balise. La pioggia diminuisce, il vento si placa ed il sentiero diventa evidente; anche questa è andata e non mi resta altro che perdere i 1600 metri di dislivello che mi separano dal successivo ristoro, e mi tolgo anche lo sfizio di superare un po’ di concorrenti che in discesa non hanno il mio passo. Arrivo in questo modo a Evolene e tutto andrebbe bene (nonostante il fastidio al tallone che riesco però a gestire) se non fossi in preda al solito sonno pazzesco. Per fortuna il gentile volontario al ristoro, dopo avermi rifocillato mi dice che se voglio riposare, nel locale dove tiene d’inverno gli sci ha ricavato una stanzetta con un po’ di brande. Inizio a scendere le scale e le mie scarpe Scott decidono per la seconda volta durante la gara di tradirmi, facendomi scivolare e ruzzolare fino in fondo alla discesa. Il volontario spaventato mi grida “are you alive ?” non capendo che la mia serie di improperi di natura veneta certificano che non c’è niente di rotto. Ho preso una bella botta sul ginocchio e ho due grattoni sul gomito e sul braccio ma non mi sembra di avere altri danni. In questo caso il sonno aiuta perciò mi levo le scarpe infangate e mi lancio in una branda, dormendo finalmente per un’ora filata. Al risveglio constato che il ginocchio si è gonfiato ma non mi fa male, pertanto ancora col buio riparto e sempre accompagnato solo da me stesso, con un buon ritmo riprendo a salire ed in meno di due ore copro i 7 km e 900 metri di salita che mi separano da Chemuille. Qui finalmente il ristoro è all’interno, e una signora di 300 anni offre a tutti il pasticcio di carne e pasta orgogliosamente preparato per l’occasione. Faccio onore alla vecchia ed al piatto e buttando l’occhio dietro un separè vedo un paio di brande libere. Non resisto alla tentazione e mi fiondo per una mezzoretta sotto ad una coperta per poi ripartire. Come detto voglio arrivare in Base Vita con tutto il margine possibile per riposare a lungo, pertanto una volta sul sentiero stringo i denti e alla luce di un’alba particolarmente uggiosa raggiungo il Col della Meina dietro a cui compare una gigantesca diga sotto la quale si vede l’Hotel (un grigio cubo) che ospita la Base Vita.

Gran Dixence
Sotto la diga, l’hotel dove è posta la base vita sembra piccolo ma è alto 7 piani

Ma la Swisspeaks non sarebbe la Swisspeaks se un comodo sentiero unisse il colle con la sottostante diga; al contrario per congiungere i due punti servono altri 8 km di discesa, per poi dover recuperare una parte del dislivello perso. Sotto una pioggerellina fredda a metà mattina raggiungo la Gran Dixence, diga più alta d’Europa e terza più alta del mondo. Qui finalmente l’idea è di fermarmi 4 comode ore, speriamo solo di dormire e che nel frattempo Fabiano faccia ora a raggiungermi.

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